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(il vorticoso flusso di coscienza)
Poi ci sono i rumori. Sempre. In testa, attorno, dentro. La pioggia sul tetto, il traffico che non smette, le voci dei vicini che pensano di non sentire. E io che sento tutto, ogni sfumatura, ogni cazzo di dettaglio che gli altri ignorano, come se il mondo fosse un film senza audio.
Vorrei buttare via i ricordi, ma restano appiccicati come gomma sotto le scarpe. Ogni volta che penso di averli dimenticati, ritornano, e ti giuro, sempre, ti stritolano. Le donne, le facce, le notti che non torneranno più… e io lì, a contare le macchie di luce sulla parete, a inventarmi storie che nessuno leggerà mai, a cercare un senso che non esiste.
La solitudine… cazzo, la solitudine è un animale domestico che morde appena ti distrai. Non la vuoi, eppure ti accompagna. Ti osserva con occhi che sanno troppo di te. E quando credi di dominarla, ti scopri a parlare da solo al vetro del bagno, a ridere di battute che solo tu puoi capire.
E poi il silenzio. Quello vero, che ti entra dentro e ti schiaccia. È un pugno nello stomaco, eppure lo cerchi. Perché senza quel silenzio, senza il niente intorno, non riusciresti mai a sentire te stesso. E io voglio sentirmi, anche se fa male. Sempre.
Il passato ti viene addosso quando meno te lo aspetti. Un odore, un rumore, un colore e bam: sei lì, in una stanza che non esiste più, con gente che non esiste più, a litigare con te stesso perché non sai se era meglio scappare o restare. E ogni scelta ti torna addosso come una frusta.
Ricordo le notti a Palermo. La città che ti mastica e ti sputtana senza pietà. Le luci tremano sulle strade bagnate della Vucciria, il fumo delle sigarette non sazia mai, e io cammino, cammino, cammino… sempre. A volte penso che correre sia l’unico modo per non pensare, ma i pensieri si rincorrono e ti superano, cazzo se ti superano.
E le persone. Sempre le persone. Quelle che ami, quelle che odi, quelle che non capisci e che ti affascinano allo stesso tempo. Laura, Tecla, Giusi, mia madre, le facce della polizia, della vita… tutte attaccate al cervello come adesivi che non vengono mai via. E io rido, piango, parlo da solo, perché è l’unico dialogo che funziona.
La morte. Sempre in agguato. Non come idea lontana, no. Come una stanza vuota che ti segue ovunque, che ti osserva. Ogni respiro, ogni passo, ogni cazzo di decisione ti ricorda che è lì, pronta. E io gioco con lei come fosse un vecchio complice, senza fidarmi, senza mollare davvero.
Eppure scrivo, continuo a scrivere, perché se smetto… allora sì che è finita. Anche se ciò che scrivo fa male, anche se è sporco, anche se nessuno lo leggerà mai. Ma almeno io l’ho visto. L’ho sentito. L’ho sputato fuori.
Il corpo… cazzo, il corpo non mente mai. Ogni dolore, ogni brivido, ogni tensione ti ricorda che sei vivo, maledettamente vivo. Il cuore che batte troppo forte quando ricordi certe notti, certe mani, certe bocche… e il diabete, la pressione, tutto che urla dentro di me e io che mi sento una macchina arrugginita che cerca di correre ancora.
La pelle che sente, le dita che tremano sui tasti del pianoforte, ogni nota un pugno, un respiro, un ricordo. Improvvisare è come vomitare la vita: note che non torneranno mai più, che non appartengono a nessuno se non a te, e che ti rendono libero e schiavo nello stesso tempo.
E il fumo. Sempre il fumo. Due pacchetti al giorno, forse tre quando la testa non ce la fa più, quando le giornate diventano troppo lunghe. Ogni boccata un pezzo di passato che ti ritorna in gola. Sigarette come piccoli totem di sopravvivenza, mentre il mondo ti passa accanto e tu lo osservi, sempre più cinico, sempre più stanco, ma incredibilmente curioso.
La mente… quella stronza che non si ferma mai. Ti trascina dentro corridoi bui, stanze piene di urla e silenzi, ti mostra ciò che non vuoi vedere e ti fa sentire tutto, tutto insieme. Emozioni che si accavallano, pensieri che si annodano come liane, e tu che cerchi di non impazzire… ma impazzisci lo stesso, in silenzio, con un sorriso cinico stampato in faccia.
E poi il niente. E poi tutto. Tutto insieme. Il dolore, il piacere, la memoria, l’adrenalina, il rimpianto, la rabbia, la noia… un unico fluido che ti attraversa e ti lascia sporco, esausto, eppure incredibilmente vivo. Sempre vivo. Scrivere è l’unico modo per restare, anche se il mondo se ne frega, anche se tutto è fottutamente inutile.
La vita è una barzelletta raccontata male, sul palco dell’Ambra Jovinelli. Senza ritmo, senza punchline, e la gente ride lo stesso, forse per imbarazzo. Io non rido più. Annuisco e accendo un’altra sigaretta. Allora era permesso fumare. E io ero conntento.
Ci ho provato a capire, lo giuro. Ci ho provato. Ho cercato senso nelle persone, nei libri, nella musica, nei tramonti che tutti fotografano. Ma il senso non c’è, o forse c’è solo per chi si accontenta. E io non mi sono mai accontentato, nemmeno quando avrei dovuto.
Sono fatto così: mi piace scavare. Anche quando so che troverò merda. Ci scavo dentro, nella testa, nel passato, nelle parole non dette, nei silenzi di mia madre, negli sguardi delle donne che ho perso. E ogni volta che credo di aver trovato qualcosa, mi accorgo che era solo un’altra illusione.
Ma va bene. Forse vivere è questo: continuare a cercare anche quando sai che non troverai un cazzo. E ridere lo stesso, magari con un filo di vino in gola e la musica giusta in sottofondo.
La gente parla di speranza. Io parlo di resistenza. Resistere al vuoto, alla stupidità, alla routine, a te stesso. Resistere all’idea che tutto finisca nello stesso modo, nel silenzio, nella polvere.
Ogni mattina mi alzo. Corro al parco, anche se a volte fa male. Bevo il mio mate, accendo una sigaretta, scrivo due righe. Per un momento — uno solo — mi sento in pace. Poi torna il rumore. Ma va bene così. Il rumore è vita, e finché lo sento, so che non sono ancora morto.
Mi guardo allo specchio e non mi riconosco. Non per le rughe, non per i capelli che se ne vanno. È lo sguardo che mi frega. Quello sguardo stanco, di chi ha visto troppo e non ha più voglia di fingere entusiasmo.
Però c’è ancora una scintilla, piccola, bastarda, che non vuole spegnersi. Quella che ti tiene in piedi quando tutto dice di mollare.
Forse è orgoglio. O follia. O semplicemente la mia dannata incapacità di arrendermi. Arrendersi, per me, è morire due volte: nel corpo e nell’anima.
Non credo più nelle grandi redenzioni. Non credo nei finali felici, nelle persone che cambiano, nelle promesse eterne. Credo solo nei momenti veri: una risata sincera, un bicchiere di vino bevuto senza pensare, un silenzio condiviso con chi capisce senza parole.
Il resto è rumore da buttare via.
Ho passato una vita intera a cercare risposte, ora mi basta farmi le domande giuste.
Chi sono? Non lo so.
Cosa voglio? Nemmeno.
Ma so cosa non voglio: mediocrità, ipocrisia, finto buonismo, sorrisi di plastica. Preferisco un “vaffanculo” sincero a mille strette di mano false e sorrisi paralitici.
Forse è questo, alla fine, il mio equilibrio: stare in bilico tra rabbia e tenerezza, tra vita che scappa e morte che aspetta.
E quando tutto tace, quando il mondo sembra dimenticarmi, allora sì, riesco quasi a sentirmi libero. Un uomo qualunque, sporco di vita e verità. Ma vivo. Ancora vivo.
C’è un momento, prima che arrivi il sonno, in cui tutto tace. Anche la testa. Sospensione. Come se l’universo trattenesse il fiato e ti lasciasse vedere la verità senza i suoi orpelli. Lì capisci: la vita non è fatta per essere capita. È fatta per essere vissuta, male o bene, ma vissuta. Perchè essa accade, come tutte le cose.
Guardo il soffitto, ascolto il ticchettio dell’orologio che non c’è. È un suono familiare, rassicurante. Ogni “tic” un ricordo che se ne va, ogni “tac” uno che torna a bussare. E io resto lì, nel mezzo, testimone del mio stesso caos.
Penso a mia madre, al suo sorriso prima che il male la portasse via.
Penso a Tecla, al suo odore che ancora mi cammina dentro.
Penso a Palermo, al sangue, alle sirene, alla polvere che non se ne va mai.
E penso a me, a questo corpo che resiste e a questa mente che non smette mai di cercare, anche quando tutto è perduto.
Forse non serve capire, serve solo accettare.
Accettare che la vita è un esperimento senza metodo, una prova generale senza spettacolo finale.
Ognuno recita come può, inciampa, sbaglia, improvvisa battute che non fanno ridere nessuno.
Ma va bene così.
Perché anche nel buio più nero, c’è sempre un piccolo bagliore che non si spegne.
E quello — quella fiamma che non vuole morire — forse è l’unica forma di eternità che ci resta.
Mi giro sul fianco. Chiudo gli occhi.
Domani tornerà il rumore, la corsa, la rabbia, la sigaretta.
Ma stanotte no. Stanotte c’è silenzio.
E nel silenzio, finalmente, ci sono io.
2012 -2025